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Leader tossici che portano risultati: come fermarli

Ottobre 2025

Succede ancora troppo spesso e in troppe organizzazioni: una persona viene messa a capo di un team perché “porta risultati”, e da quel momento tutto il resto passa in secondo piano. È qui il paradosso: questa leadership viene protetta (e anzi incentivata) perché performa sul breve periodo, consegna, spinge, chiude. Ma il costo è altissimo e lo si paga dopo: turnover alto, silenzi nelle riunioni, collaboratori che si spengono. Alcuni se ne vanno, altri restano e contaminano l’ambiente.

Finché ci si accorge che per tenere in piedi una persona si è perso un intero team. Chiamiamola con il suo nome: leadership tossica.

Carnefice, salvatore, o vittima?

La tossicità oggi non è sempre urlata. È quotidiana, sottile, difficile da contestare. E spesso ruota attorno a tre ruoli precisi.

 

Il punto è che spesso non sono tre persone diverse: è la stessa persona che cambia maschera in base a ciò che gli conviene.

Lunedì accusa, martedì salva, venerdì soffre. Questo teatrino produce sempre lo stesso effetto sul team: dipendenza, paura, paralisi. Non c’è responsabilità condivisa, c’è dramma. E dove c’è dramma costante, non c’è spazio per la verità.

“Sto alzando l’asticella” dice il leader tossico. No, stai alzando la minaccia

Molti leader tossici si raccontano così: “sono duro perché voglio il massimo”. Ma c’è una differenza enorme tra alzare l’asticella e alzare la minaccia.

Alzare l’asticella vuol dire chiarire l’obiettivo, spiegare perché conta, dire cosa è prioritario e cosa no, e mettere le persone nella condizione di arrivarci. Questo è sfidare in modo adulto. Alzare la minaccia vuol dire cambiare target ogni settimana, parlare solo di urgenza e mai di criterio, far passare l’idea “se sbagli mi rovini”. Qui non si genera ambizione, si genera ansia. E quando l’ansia supera una certa soglia, le persone smettono di imparare e iniziano a proteggersi: non fanno domande vere, non ammettono problemi finché è tardi, non chiedono aiuto in tempo, non danno feedback verso l’alto.

Quello non è engagement. È sopravvivenza.

Questa dinamica è incompatibile con la sicurezza psicologica, cioè la convinzione condivisa nel team che si può parlare apertamente di rischi, dubbi ed errori senza ritorsioni personali. Senza sicurezza psicologica il team non segnala i problemi, non innova e non corregge rotta in tempo.

Pagare il conto

La leadership tossica che “porta numeri” genera tre costi che l’azienda spesso finge di non vedere.

E questo è il cuore del paradosso: sul mese il leader tossico sembra indispensabile, sul semestre diventa il limite alla crescita.

Spezzare il meccanismo tossico

Dire “via i tossici” non basta. Bisogna interrompere la dinamica. Fermare il carnefice significa spostare la conversazione dalla colpa alla chiarezza. Non più “chi ha sbagliato?”, ma “cosa non era definito, cosa decidiamo ora?”. Togli la paura come strumento di governo e riporti il confronto sui fatti.

Fermare il salvatore significa restituire responsabilità. Non “lo faccio io per voi”, ma “questo pezzo è tuo, io ci sono se serve e ti rendo visibile mentre lo porti”. Il team smette di chiedere permesso per respirare e ricomincia a crescere.

Fermare la vittima significa fermare l’uso del sacrificio personale come arma di controllo. “Riconosco la fatica, ma non useremo la tua fatica per evitare le conversazioni difficili”. Il carico emotivo non può diventare censura.

Questo non è buonismo. È igiene organizzativa. È il passaggio dal dramma al confronto adulto: meno paura, più responsabilità condivisa. Ed è la linea che separa chi occupa un ruolo di comando da chi esercita davvero leadership.

Autrice: Lucilla Rizzini

Founder di @Ellecubica & Direttrice del Master in Coaching riconosciuto da AICP

Master Certified Coach (MCC) ICF

Autrice “Motivati si diventa” edito da Guerini Next.

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