Viviamo in un’epoca in cui il rumore è ovunque. Parole, notifiche, opinioni, risposte pronte. Tutti parlano. Tutti devono dire qualcosa. Tutti sanno già tutto. E spesso anche io – lo ammetto – ho avuto la tentazione di intervenire, spiegare, chiarire. Poi ho scoperto una forma diversa di presenza, più sottile e trasformativa: quella del silenzio.
Era il 2008, il mio primo viaggio in Giappone, ero lì per lavoro. Incontravo distributori locali e avevo un’apparizione in una rete televisiva nazionale. Il rumore era ovunque ma, quasi fosse un’ossimoro, incontravo persone estremamente silenziose, in armonia. Fu allora che iniziarono i miei studi di intelligenza culturale che mi portarono 12 anni dopo a creare il master in coaching dinamico. Fu in quel primo viaggio che scoprii il concetto di ageashi: l’arte di mordersi la lingua, un concetto giapponese che mi ha profondamente colpita. Ageashi. È la pratica del mordersi la lingua, non per autocensura, ma per saggezza. Ageashi è l’arte di fermarsi prima di parlare, di non reagire d’impulso, di fare spazio al pensiero e al rispetto per l’altro. È una forma raffinata di silenzio interiore, che ci permette di scegliere con cura ogni parola, o di decidere che in quel momento la parola migliore è proprio il silenzio.
Sì, proprio il silenzio. Ma non il silenzio passivo, rassegnato, quello che ingoia. Sto parlando del silenzio attivo, scelto, che apre spazi, genera possibilità e accende nuove consapevolezze.
E’ tutto lì, del resto, quando sai la risposta, ma fai un passo indietro.
Uno dei momenti più potenti che vivo come coach è quando so la risposta, ma scelgo di non darla. Non per egoismo o per strategia, ma per rispetto. Perché lasciare spazio all’altro significa riconoscergli la capacità di trovare il proprio senso, i propri significati. Soprattutto nel coaching.
Nel coaching, il silenzio è uno strumento prezioso. È quello spazio non riempito che permette al coachee di sentirsi accolto, non giudicato, libero di esplorare. Daniel Goleman, padre dell’intelligenza emotiva, ci ricorda che una mente lucida nasce dal saper integrare pensiero e sentimento. E nulla favorisce questa integrazione quanto un momento di silenzio, quando la parola non serve più.
Il silenzio come pratica culturale
In Giappone, dove ho scoperto l’arte di mordersi la lingua prima di parlare a sproposito, il silenzio non è vuoto, è pieno. Il silenzio è rispetto, ascolto, armonia. Parlare troppo, nella cultura nipponica, è spesso segno di immaturità.
Il vero maestro non è colui che ha sempre qualcosa da dire, ma colui che sa quando è il momento di tacere.
E non è solo un fatto culturale.
Secondo uno studio pubblicato sul Journal of Cognitive Enhancement, praticare brevi momenti di silenzio migliora la memoria e la capacità decisionale. Il cervello, in assenza di stimoli verbali, entra in una sorta di “modalità default” in cui rielabora, collega, crea. Uno studio condotto in Germania (Kirste et al., 2013) ha persino dimostrato che due ore di silenzio al giorno favoriscono la neurogenesi, ovvero la nascita di nuove cellule cerebrali nell’ippocampo.
Il silenzio come competenza relazionale
Fare silenzio non è solo un atto individuale, ma una competenza relazionale. Richiede presenza, empatia e umiltà. Spesso ci affrettiamo a dare risposte, consigli, soluzioni. Ma quando ci fermiamo, quando lasciamo all’altro uno spazio autentico in cui pensare e sentire, stiamo regalando fiducia. Accade sopratutto durante le riunioni nei team. Tutti vogliono dire la propria oppure tacciano ma non per il rispetto di cui sto scrivendo ora.
Silenzio, come lo stiamo vedendo in questo momento, è non voler avere ragione per forza. È rimanere accanto a qualcuno senza la necessità di salvarlo, di aggiustarlo, di riempirgli i vuoti. È dire: “Ci sono, anche se non ho le parole. E forse proprio per questo, ci sono davvero”.
In azienda, nei team, nei percorsi di crescita
Il silenzio non è il contrario della comunicazione. È parte della comunicazione. Nei team, nei contesti organizzativi, imparare a fare silenzio nei momenti giusti può essere ciò che distingue un buon leader da uno straordinario. Saper sospendere il giudizio, ascoltare senza interrompere, non completare le frasi altrui, sono segni di una leadership matura, generativa.
Eppure, siamo culturalmente portati a riempire, soprattuto in Italia.
Lo vedo anche in aula, molti partecipanti si sentono a disagio nei momenti di silenzio. Ma proprio lì, in quel piccolo imbarazzo iniziale, nasce qualcosa: un pensiero più autentico, un’idea che prima non c’era.
Il silenzio come scelta evolutiva
Chi sa usare il silenzio non è una persona debole, ma una persona che ha imparato ad ascoltare. Se vuoi costruire un mindset solido, adatto ai tempi complessi in cui viviamo, allenati al silenzio. Fallo con intenzione, non come fuga, ma come scelta.
E se sei un coach, un formatore, un leader, sappi che il tuo impatto non dipenderà solo da ciò che dirai. Ma anche, e soprattutto, da ciò che sceglierai di non dire.
Ps. Se vuoi scoprire l’approccio al coaching che integra l’intelligenza culturale oltre a motivazione e cambiamento, scrivi a coaching@ellecubica.it.
Autrice: Lucilla Rizzini
Direttrice del Master in Coaching riconosciuto da AICP & Founder di @Ellecubica
Professional Certified Coach (PCC) ICF
Autrice “Motivati si diventa” edito da Guerini Next.